Il temporale

Il temporale non sapeva di essere un temporale. Per lui il tempo normale era quello, non immaginava che potesse esserci qualcosa di diverso oltre al vento, la pioggia e l’umidità.

Fin da piccolo, quando era una giovane perturbazione di collina, era abituato a soffiare e spostarsi seguendo il vento nelle sue infinite peregrinazioni; a volte tornava più e più volte a bagnare le stesse terre come se non avesse fatto bene il proprio lavoro la prima volta e da queste ripetizioni imparava e cresceva prendendo sicurezza nelle proprie capacità.

Un giorno scoprì il tuono e si spaventò; per parecchio tempo si limitò a fornire una semplice pioggerellina per paura che si ripetesse quella roboante esperienza ma il vento, che la sa lunga, gli spiegò che per diventare grandi occorreva superare la Prova del Tuono.

Lui non voleva, piccolo come era. La sola idea lo sconquassava fin nelle nuvolette più piccole strizzandole di lacrime.

Poi venne un pomeriggio d’estate. Tutto era pace e frinire di cicale, il rumore del silenzio era assordante, il caldo lo alimentava e lo faceva crescere come mai gli era capitato fino a quel momento.

Il vento amico capì che era arrivato il momento giusto e iniziò a soffiare gentilmente ma con fermezza un’aria fresca fresca proprio nel mezzo dei grandi cumuli bianchi, rendendoli a poco a poco grigi come i vecchi lupi.

I cumuli si guardarono l’un l’altro sorpresi per questa trasformazione e capirono di essere diventati grandi; era arrivato i momento che capita sempre nella vita di un piccolo temporale e il grigio si trasformò in nero in un lampo e il lampo in tuono e il tuono in un susseguirsi di rimbombi pervadendo la campagna.

Il temporale non ebbe il tempo di spaventarsi. All’inizio si tappò le orecchie con un batuffolo di nuvola ma poi prese gusto a tutto quell’inebriante fragore pensando: “sono io che faccio tutto questo!”

E poi un momento di silenzio, ma solo un attimo, in cui tutto si fermò. Poi fu la pioggia che divenne protagonista alleggerendo le fatiche delle nuvole squassate dal vento e furono le risate sincere di un giovane temporale che salutarono l’arrivo dell’arcobaleno, come un premio per essere stato bravo.

Ravioli del Plin

Ci voleva proprio una settimana tranquilla di fine luglio per preparare i Ravioli del plin. Mica si fanno quando si corre, vengono bene solo quando il tempo rallenta e i gesti sono più adatti a maneggiare con cura ingredienti e sfoglia e le dita si possono dedicare a pizzicare la pasta senza farle male.

Il Nonno, piemontese quasi DOC, diceva che ci volevano tre tipi di carne: manzo, pollo e maiale e, nel dirlo, chissà quali scorrerie per la campagna in cerca di amici aveva in mente. Per l’edizione  moderna ripiego, più prosaicamente sulla carne macinata, fettine di pollo e fondino di prosciutto cotto.

In padella salto la carne macinata, il pollo e infine ripasso una manciata di spinaci nel fondo di cottura. Un grande tuffo nel mixer con l’immancabile uovo per il ripieno, un’idea di parmigiano e sale a sentimento e il ripieno è pronto.

E poi il sughetto di verdure appassite a lungo in padella, unite al fondo di cottura della carne, in cui la carota tagliata sottile si intrattiene con il sedano e lo scalogno che, a dispetto del nome, è di grande compagnia; quando le verdure sono adeguatamente appassite, aggiungo una parte della carne macinata, ulteriormente sminuzzata, in modo che verdure e carne facciano conoscenza mescolandosi.

E poi la sfoglia, il ripieno posto in lunga fila e poi avvolto dalla pasta, e ancora i pizzicotti per separare il i fagottini e il taglio che distorce, arrotola e produce forma bizzarra al raviolo che solo a mano può essere fatto a regola.

Tutto questo il Nonno non lo faceva, ci pensava Nonna a volare leggera in cucina. Poi lui, alla fine, portava in tavola un paio di bottiglie di Nebbiolo dalla cantine e diceva: “Abbiamo fatto i ravioli!”, ignorando il sospiro di pazienza della Nonna ancora infarinata e le sue mani profumate di cose buone.

Momenti di gloria

Mi è capitata tra le mani questa foto scattata tempo fa in occasione di un incontro genovese con il tenore Armiliato, mio compagno di liceo, tenuto presso la libreria Feltrinelli. Al di là del piacevole incontro personale, mi riporta alla mente quel pomeriggio in cui un certo numero di persone erano riunite nella sala dedicata agli incontri con autori o artisti. Quando sono arrivato, ho notato che la sala era quasi piena ma che alcuni posti erano ancora disponibili dalla parte opposta all’entrata.

L’incontro avrebbe dovuto essere presentato da un direttore d’orchestra e da un altro personaggio di cui non ricordo il ruolo, probabilmente uno scrittore appassionato di lirica. Ebbene, quando penso sia arrivato il momento di prendere posto, mi sono inoltrato nella sala con aria sicura, un lieve sorriso accennato e un plateale disinteresse per chiunque sia presente, puntando solo la poltroncina che avevo eletto come mio trono.

Faccio un passo e cala il silenzio. Faccio un secondo passo e inizia uno brusio in sala. Al terzo passo iniziano gli applausi di benvenuto e quasi tutti i presenti mi fissano con ammirazione manifestando il loro apprezzamento. Io continuo con i miei passi, visto che mi sono venuti bene e, invece di raggiungere il palchetto, mi dirigo verso l’agognata poltroncina.

Mi sono seduto e solo in quel momento mi sono guardato in giro e ho visto persone dall’aria smarrita che cercavano di riprendere un contegno guardando ovunque tranne che verso di me, fuggendo da una cantonata clamorosa in cui avevano scambiato me per chissà quale personaggio.

La gloria è durata poco ma me la sono goduta tutta. Fabio (Armiliato) è arrivato subito dopo trafelato perché, avendo sentito gli applausi, pensava di essere in ritardo all’appuntamento ma l’ho tranquillizzato: non gli avrei più rubato la scena.