Guerre Puniche, Marines e Cannette

Tratto da: 

I Diari del Monopattino Sabato 25 maggio 1964

Erano giorni che tenevo d’occhio il mio vicino, lui e il suo compare dall’aria angelica ma con uno sguardo che a me sembrava volesse dire tutt’altro. Erano troppo silenziosi, troppo ligi alle regole come se non volessero dare nell’occhio e forse ci riuscivano, dannati loro! Possibile che nessuno tranne me si accorgesse di quei due dediti a tramare chissà cosa. Appunto: chissà cosa. Ero curioso, maledettamente curioso di sapere cosa avessero da confabulare, guardandosi ogni tanto intorno per vedere se le loro sommesse risate avessero catturato l’attenzione di qualcuno.

Poi, d’un tratto avverto un pericolo che mi distrae da questi pensieri e mi riporta ad una realtà più drammatica. Nonguardareme, nonguardareme, nonguardareme….pronuncio con la mente queste parole come un mantra  senza sapere cosa sia un mantra, forse se lo ripeto dieci volte trattenendo il fiato il pericolo scompare…

Sono alla nona ripetizione quando una campanella risuona prepotente nel corridoio, ponendo fine al mio mantra e a quello dei miei compagni di classe felici di non essere stati chiamati alla lavagna. Salvati dalla campanella: un classico. Abbandono i sudori freddi per godermi i pochi minuti di intervallo come fosse l’ora d’aria dei carcerati. Schizzo via dal banco ma con la coda dell’occhio vedo che i due di prima, nella foga di uscire per primi dall’aula hanno lasciato incustodito il quadernetto su cui disegnavano e indicavano durante tutto il tempo dei loro intrallazzi.

Rallento e assumendo la mia migliore aria indifferente, passo vicino al loro banco e mi impossesso del quaderno nascondendolo come posso sotto la maglia. Esco poi in corridoio e mi mescolo agli altri marmocchi del mio piano. Ormai sono grande e guardo i piccoletti con gli occhi dell’esperienza, ho superato brillantemente l’esame di seconda elementare e ora mi godo questa nuova età dei grandi.

Tra i bagni e il corridoio c’è un anfratto, nascosto da una vecchia libreria, dentro cui ci si può nascondere e così faccio per poter finalmente vedere l’oggetto di tanto interesse. Tiro fuori il quaderno e inizio a sfogliarlo. All’inizio una grande delusione. Solo aritmetica, qualche compito, scarabocchi sparsi giusto per passare il tempo e consumare la matita e poi però, dopo una manciata di pagine, le cose si fanno interessanti: i disegni buttati lì a caso si trasformano in mappe, piantine di luoghi misteriosi che dal contorno sembrano isole con al centro delle costruzioni ben protette, alcune hanno chiaramente disegnata una pista di atterraggio, si vedono sistemi di difesa (almeno così sembra: io li avrei disegnati allo stesso modo).

Dovessi dirla tutta, alcune cose mi sembravano prese dall’ultimo numero del Corriere dei Piccoli, ma non l’avrei mai ammesso pubblicamente. Ormai ero grande e certe letture (contenenti la parola “dei Piccoli”) non facevano più per me…almeno ufficialmente, perché non passava giorno in cui non mi infilassi nelle storie raccontate su quel giornale.

Osservo ancora un po’ quei disegni e poi metto via tutto perché la campanella sta suonando imperiosa e non vorrei farmi beccare dal bidello che, stando alla mancanza di polvere in quel luogo nascosto, temo lo conosca bene quanto me. Rientro in classe con aria saputina e passando vicino ai miei due compagni dico loro con un’intonazione disinvolta e melliflua:

“Cercavate forse questo”?

I due arrossiscono e balbettano qualcosa di scomposto prima di avventarsi come furie sul quaderno che tengo in mano. La manovra però non riesce e i due restano fotografati a mezz’aria dallo sguardo del maestro che in quel momento rientra in classe.

“Bene bene bene! Rossi, Martini e Passalacqua, vi siete appena offerti volontari per spiegare a tutta la classe come iniziò la Prima Guerra Punica. Venite qua così tutti possono sentire bene”.

Io penso di essere grande, ma poi finisce che mi faccio beccare come un salame. In questo caso, un salame che di guerre puniche non sapeva nulla ma che aveva ben chiara la guerra che sarebbe scoppiata in casa se fosse tornato con un votaccio di storia.

I miei due compagni di sventura però la storia la sapevano eccome! Passalacqua sapeva la storia talmente bene che la racconta come fosse un’avventura, catturando l’interesse della classe e del maestro. Questo, forse compiaciuto e distratto dai modi del nostro compagno, ci fa tornare ai nostri posti dimenticandosi di tuonare come spesso fa dietro alla nostra ignoranza.

La mattina per fortuna finisce e uscendo mi avvicino ai due cospiratori dicendogli:

“Ora dovete dirmi esattamente cosa state combinando e a cosa si riferiscono questi disegni”.

“Metti via quel quaderno, non lo deve vedere nessuno! Sono segreti militari che nessuno deve conoscere”!

“Voi due siete dei polli, altro che militari! Se al posto mio il quaderno fosse caduto in altre mani cosa avreste fatto”?

I due si guardano imbarazzati e si, ammettono di non aver fatto le cose come si deve, ma che se non lo avessi riferito al loro comandante, mi avrebbero fatto entrare nella loro squadra. Io faccio finta di pensarci un pò e poi, con aria di sufficienza gli dico che va bene, ma ora che siamo dalla stessa parte mi devono raccontare tutto, ma proprio tutto.

Non è stato un racconto breve, ci sono volute ben due rampe di scale scese piano piano in coppia perché i due mi raccontassero che quei disegni si riferiscono ad una base segretissima nell’oceano Pacifico dove i Marines (naturalmente pronunciato letteralmente e non all’inglese) avevano la loro base più importante. Loro due (i pasticcioni) erano incaricati della sicurezza e dovevano studiare le mosse del nemico per impedirgli di invadere la base.

Io (il salame) li avrei aiuti nella loro impresa, e per fare questo ci siamo solennemente impegnati a vederci nel pomeriggio dopo aver fatto i compiti (attività più importante di qualunque nemico). Luogo di appuntamento: un angolo della base contrassegnato con una sigla.

Sciamiamo finalmente da scuola e io mi fiondo a casa come un fulmine, avendo lo stomaco che brontola dalla fame come se due gatti vi si accapigliassero. Le ore seguenti trascorrono senza particolari cose da segnalare con il solito vorace giro del tavolo ma senza il consueto brontolamento della mamma che mi manda a fare i compiti. Oggi deve filare tutto liscio e dopo pranzo non sto a perdermi in mille cose inutili, prendo libro e quaderno e mi metto sul tavolo di cucina a fare gli esercizi.

La mamma mi guarda preoccupata pensando che io stia male. Mai era successo che di mia iniziativa mi mettessi a fare i compiti e sicuramente non prima di una decina di strilli da parte sua. Per un momento ho il timore che voglia misurarmi la febbre, ma poi, distratta dalle sue mille occupazioni in casa esce dalla cucina e si mette a fare dell’altro.

Arrivano le quattro, ora della merenda e momento irrinunciabile per ogni soldato che si rispetti. Miracolosamente i compiti sono fatti e altrettanto improvvisamente compaiono le fette di pane con la crema di cioccolata fatta dalla nonna. Divoro tutto a tempo di record e, fuggendo dalla cucina dico a tutti e a nessuno in particolare:

“Ciaomammaescocivediamodoposonoquiingiroooo”!

Esco da casa come un fulmine e inizio a precipitarmi giù per i sei piani di scale iniziali più le tre rampe successive con una foga da discesa libera. Ma, a mano a mano che scendo, iniziano a frullarmi in testa le cose del mattino e sento che c’è qualcosa che non va. Alla fine esco in strada ormai con passo lento e capisco: Ma dove diavolo ci vediamo? Sull’isola del Pacifico? E dove trovo il Pacifico alle quattro di pomeriggio a Genova?

In effetti, se mi do del salame qualche volta non ho torto…Comunque, passato il momento del dubbio, il mio solito scatenatissimo ottimismo mi fa dire: sicuramente si tratta di un codice per depistare il nemico, l’appuntamento deve essere nei giardini dietro la scuola dove i due si vedono per giocare.

Ringalluzzito da questa certezza riprendo a scapicollarmi verso la mia meta, coprendo la distanza tra San Nicola e Castelletto in tempo record. Poco prima di arrivare a destinazione rallento in modo da aiutare la mia lingua trafelata a raggiungermi e ad assumere un’aria professionale e distaccata. Faccio un rapido controllo delle armi e vedo che quando sono ruzzolato per terra lungo la creuza cento metri prima non ho perso nulla tranne qualche pezzetto di pelle dalle ginocchia. Tanto quella ricresce.

Il pomeriggio non esco mai disarmato, non si sa mai che incontri puoi fare nei viali in collina, ci sono certe balie con pupo in carrozzina che non me la contano giusta. Oggi ho con me la mia preferita, una cerbottana con due canne di metallo accoppiate usando due tappi di sughero e alcuni giri di nastro adesivo. Un’arma leggera e affidabile. Inutile dire che le munizioni me le sono preparate da solo arrotolando striscie di carta opportunamente tagliata e inopportunamente sottratta all’elenco telefonico di casa (spero proprio che nessuno vada a cercare cognomi che iniziano con la acca altrimenti mi beccano).

Vedo i miei due compagni intenti a depistare il nemico combattendo una terribile partita a pallone, ma quando mi vedono interrompono la battaglia per un consiglio di guerra. Ora, con me, sono in maggioranza e possono cambiare le regole. Sarà un’azione che coprirà tutta l’isola (i giardinetti), senza esclusione di colpi, finchè ci saranno munizioni. E così è stato in un inseguirsi, scansare colpi e mettendone a segno molti.

Alla fine abbiamo vinto tutti e torniamo verso casa sporchi e trafelati a combattere un’altra battaglia con le mamme che sicuramente non gradiranno di vederci in questo stato.

 

Tram

Da I Diari del Monopattino Martedì 28 settembre 1960

Questa mattina sul tram il bigliettaio mi guarda con altri occhi e mi dice con aria solenne:

“Oggi sei diventato grande. Hai superato il metro di statura.”

Questo sottintendeva che avrei pagato il biglietto. Infatti ne stacca uno e me lo porge. Il mio primo biglietto. Mi rivolgo al nonno che provvede a pagare le 70 lire della corsa salutando il suo amico bigliettaio. Lui non paga, ha la tessera di ex dipendente UITE e conosce tutti i tranvieri. Mio nonno è famoso.

Mi arrampico sul sedile di legno che nonostante io sia cresciuto rimane sempre un trono e appiccico il naso al finestrino per guardare il mondo dall’alto. Il nonno mi dice di tenermi al sedile davanti, solite raccomandazioni, penso io, ma dopo la capocciata presa a causa di una frenata rivedo il mio giudizio e afferro senza indugio il corrimano.

Strani odori si alternano lungo il corridoio. Il signore col vestito grigio scuro che puzza di fumo acre, con le dita gialle di nicotina proprio all’altezza dei miei occhi, la signora enorme con la sporta della spesa, salita all’altezza del mercato, che mi solletica il naso con le foglie del sedano (fortuna che non ha comprato carciofi). C’è anche un dolce profumo di frutta, ma non la vedo: forse è finita sul fondo e si è ammaccata spandendo il succo e impregnando la carta di giornale in cui la immagino avvolta.

Passa anche un delizioso profumo di fiori, forse quello di una signora elegante che, chiedendo ripetutamente “permesso!” , si fa avanti perché si è accorta di dover scendere. Ora devo scendere io dal sedile per far posto “alla signora” come dice il nonno sempre galante, anche se “la signora” mi sembra tutt’altro che “una signora” perché sbuffa con aria impettita e non ringrazia neanche.

Quando sono in piedi nel mezzo del corridoio le cose si fanno più complicate perché il mondo, visto dall’altezza di circa un metro, non è lo stesso dei grandi e “i grandi” non si ricordano di come lo vedevano alla mia età. Mi trovo faccia a faccia con ombrelli bagnati, borse che mi sbattono qua e là e io divento un impedimento al passaggio della gente che, non vedendomi o facendo finta di nulla, passa oltre strattonandomi mentre io mi devo ancorare alle maniglie per non farmi travolgere.

Faccio anche incontri bizzarri con i cagnoloni con cui devo condividere sia la piattaforma posteriore sia le lamentele della gente. I più fortunati sono i cani piccoli che, tenuti in braccio dalle signore, godono di una posizione privilegiata dalla quale sono decaduto il giorno in cui sono cresciuto e non potevo più stare in braccio alla mamma perché “pesavo”.

Quando finalmente ci si avvia alla fine della corsa e quasi tutti i passeggeri sono scesi, riesco ad arrivare alla mia postazione preferita a fianco del conducente (manovratore lo chiamano). Io lo guardo affascinato mentre muove con perizia tutte quelle strane leve pensando che da grande mi sarebbe piaciuto fare quel mestiere, come faceva anche il mio bisnonno.

Visto che il nonno è un amico, i tranvieri ci fanno entrare con loro nella rimessa, con l’intenzione di andare a farsi “un bianco” al dopolavoro. Mai visto un posto più grande di quello, tutto a vetri anche nel tetto e travi di metallo e disseminato di buche “di ispezione” dove, dice il nonno, devo fare attenzione a non cadere (questo, anche se piccolo, lo avevo capito da solo).

Quando scendiamo dal tram io adocchio subito un filobus, uno di quelli lunghi, con “tre assi”. E’ fermo con le porte aperte che sono un invito per me. Una sbirciata al nonno mi fa capire che lui ha la testa rivolta agli amici e così in un attimo salgo su quel filobus enorme e deserto fiondandomi al posto di guida dove trovo un volante largo quasi quanto io sono alto. Non posso sedermi, così rimango col sedere appiccicato al sedile, le mani aggrappate al volante che muovo qua e là come se guidassi in uno slalom e i piedi sempre più vicini ai pedali.

Finalmente, allungandomi tutto, riesco a toccarne uno, ma non succede nulla (era il freno) ma non fa nulla perché mi sembra di manovrare come avevo visto fare “al conducente”. Poi, per caso o per calcolo, cambio pedale e ora si che qualcosa succede. Centro con una pedata il pedale dell’acceleratore e improvvisamente, con un muggito tipico dei motori elettrici che vengono  inondati di corrente, il filobus inizia a muoversi in avanti.

La cosa non è passata inosservata perché insieme al muggito del motore, altri muggiti (grida) si sono levati dal gruppo di ferrovieri lì vicino dal quale si è staccato il più vispo che correndo è salito sul mezzo e con mossa sicura lo ha bloccato prima che finisse contro qualcosa.

La mia avventura di conducente è finita dopo dieci metri di corsa con una ramanzina spettacolare di mio nonno e di tutti i ferrovieri che hanno assistito alla scena. La cosa mi è servita da lezione: mai partire se non si sa come fermarsi.

Scampato il pericolo, tutti hanno pensato bene di spostarsi a chiacchierare in un posto più sicuro (a bere un sorso di bianco) non immaginando quali cose posso fare io con una bottiglietta di Coca Cola in mano…

Lettera a Babbo Natale

 

Caro Babbo Natale, probabilmente non ti ricorderai di me visto che è passato quasi un anno e sarai stato catturato dalla frenesia del tuo lavoro, però, nonostante tutto, cercherò di riportarti alla mente quello che è successo e che mi ha reso protagonista di una storia che a pensarci ora mi mette ancora i brividi.

Tutto è successo intorno alla metà di dicembre dello scorso anno quando Cecilia, la gatta di casa, ritenendo di essere stata una gatta per bene per un anno intero, ha pensato di scriverti la classica letterina esprimendo i propri desideri. Essendo gatta di buona famiglia, immagino non abbia avanzato richieste esose rendendoti la vita impossibile ma solo piccole e semplici cose, tra le quali… Me.

Si, caro Babbo, io sono Tobia, il piccolo topo che hai scelto per accontentare i desideri di Cecilia e che hai proditoriamente prelevato dal suo mondo impedendogli di proseguire la sua placida esistenza di roditore per catapultarlo in una realtà da incubo.

Tutto è successo repentinamente una notte in cui stavo allegramente sgranocchiando qualcosa in dispensa. All’improvviso si è levato un turbine intorno a me e quando si è placato mi sono ritrovato nel tuo reparto imballaggio, pronto per essere impacchettato e spedito. Non sapevo che il cuore potesse battere così velocemente e gli occhi strabuzzare fuori dalle orbite in tal modo!

Gli elfi, senza un minimo di riguardo mi hanno inscatolato, fasciato, legato e applicato l’indirizzo di destinazione senza neanche mettere nella confezione qualcosa da sgranocchiare per il viaggio. La mia dignità di topo è stata calpestata senza ritegno.

Per fortuna il viaggio è durato poco e non ho patito il mal d’aria. Solo qualche brivido quando sono precipitato giù per il camino. Non ti dico la noia mortale e la fame sofferta durante l’attesa che scoccasse la mezzanotte. Ma finalmente è giunta e in uno strepito generale e uno sconquassamento causato dalla frenetica ricerca del pacchetto giusto sono stato a lungo sballottato finché la quiete è calata sotto l’albero. Io ero ancora nella scatola ma tutto intorno era ormai in silenzio.

Iniziavo già a disperare che mi avessero dimenticato quando all’improvviso i miei baffi hanno avvertito qualcosa di strano, quasi un pericolo incombente aleggiare intorno. Poi un colpo alla scatola, due, tre! Infine la luce si è fatta strada attraverso le fessure e l’ultimo colpo ha creato un varco sufficiente a farmi uscire. Finalmente!

Con aria circospetta metto il muso fuori dalla scatola e mi guardo intorno. Sembra tutto tranquillo.. quasi quasi esco… mi sgranchisco un po’ quando sento una voce che non dimenticherò mai:

“Checcariiiiinooooo”!!

Io divento all’istante una palla di pelo e un odore di paura si diffonde nella stanza, cerco velocemente un luogo dove nascondermi mentre il panico mi cattura. Cerco di rientrare nella scatola ma la fessura mi tradisce e riesco solo a mettere dentro il muso mentre il mio rotondo posteriore si dimena inutilmente all’esterno con le zampe posteriori  che annaspano l’aria.

Mi sento preso delicatamente per la coda, cosa che generalmente mi imbarazza non poco, e trasportato dondolante verso una cesta dove vengo adagiato. Qui cerco di riprendermi e darmi un tono ma la gatta non perde tempo e in un frastuono di fusa mi dice:

“Dai, giochiamo! Tu scappa che io ti prendo”!

Andiamo bene, mi sono detto, e ora cosa faccio? Mi sono messo a correre. E lei dietro…

Caro Babbo Natale, non voglio dilungarmi perché penso che ormai tu abbia capito chi sono e io non ho molto tempo per scriverti prima che Cecilia mi trovi nel nuovo nascondiglio che ho ideato. Dopo un anno passato con lei, ora ho io un desiderio da esprimere e so che se hai un cuore lo esaudirai.

Durante le mie fughe nei giorni scorsi, percorrendo a perdifiato il solito muraglione, ho trovato per la prima volta il cancello spalancato e d’istinto mi sono infilato nel cortile. Stranamente Cecilia non mi ha seguito e la cosa mi ha sorpreso finchè non ho letto il cartello che diceva: “Canile Comunale”.

Probabilmente la tua mente vulcanica avrà già capito dove voglio arrivare e ti assicuro, provo molta pena per il malcapitato che tu sceglierai, inscatolerai, fascerai, legherai e spedirai senza alcun riguardo all’indirizzo della mia amica gatta, però è proprio questo che ti chiedo come regalo di Natale. Un bel cagnolotto vispo e intraprendente che faccia fare a Cecilia la stessa vita che lei ha fatto fare a me per un anno intero.

Confidando che il mio desiderio sia esaudito, ti auguro buon lavoro e un felice anno. Io da Santo Stefano in poi, sarò un topo felice.

Con affetto, tuo

Tobia.