Un signore inglese

Recentemente, ho letto un articolo su una rivista che annunciava il compleanno di un distinto signore inglese, uno scienziato che ha dedicato i propri studi all’astrofisica, dato un nome a un asteroide, scritto un libro sulla storia della fotografia stereoscopica e uno sulla storia dell’universo; è stato anche consulente per la NASA nell’ambito dell’invio di sonde spaziali su Plutone.
Questo gentile signore settantenne, prosegue sottotono l’articolo, in gioventù si è dedicato anche alla musica formando un gruppo cui diede il nome di Queen. Mi pare che il suo nome fosse Brian May.

Dischi

DischiLa selezione dei brani musicali da includere in una scaletta da trasmettere non può essere casuale. Non dovrebbe esserlo. E’ invece frutto di uno stato d’animo che si vuole esprimere e la sequenza diventa un percorso, una trasformazione dell’umore, la comunicazione di un modo di sentirsi in quel momento che solo la musica riesce, per empatia universale, a trasmettere.

La ricerca delle musiche nei corridoi tappezzati di dischi è opera certosina, quasi da topo di biblioteca; e poi l’ascolto in cuffia per capire la giusta sequenza, i ritmi da mixare in consonanza o creando stacchi repentini per generare sorpresa. Mai lo stesso interprete per due brani di seguito a meno che non si tratti di sviluppare una monografia.

Durante la selezione e lontano dalla frenesia della trasmissione c’è il tempo per crogiolarsi nel rito dell’ascolto: accarezzo con lo sguardo la copertina del disco (rigorosamente LP) alla ricerca di particolari precedentemente sfuggiti e che possono diventare lo spunto per un commento; poi estraggo con un fruscio il disco ancora avvolto nella sotto-copertina di carta più sottile, spesso ulteriore fonte di notizie: interpreti, luoghi di registrazione, testi delle canzoni, ospiti e tutto il colorito mondo che ruota attorno alla realizzazione di un’opera musicale.

Passo quindi ad osservare il disco nero, con la parte centrale colorata da una micro-etichetta rotonda che vorrebbe suggerire altre cose oltre ai titoli in sequenza; e poi il microsolco lucente che promette meraviglie d’ascolto. Poso il disco lentamente sul piatto fermo indovinando con mano sicura il perno da introdurre nel foro. Il braccio del giradischi è pronto per essere manovrato e la puntina cala adagio nel solco selezionato e nelle cuffie mi arriva un suono ovattato e secco: il rumore del silenzio che precede la musica, un momento da vivere con trepidazione ad occhi chiusi e volume coinvolgente, come se chi suona lo facesse solo per me in quel momento e non volessi perdere neanche un particolare dell’esecuzione.

Io sono solito scegliere brani di facile ascolto per iniziare la trasmissione; un modo per mettere a proprio agio chi ascolta con musiche familiari, orecchiabili, di facile comprensione perché ormai ascoltate più volte; in questi casi si ascolta più il ricordo della musica nella propria memoria di quella effettivamente trasmessa.

Dopo due o tre musiche di introduzione passo al tema che mi piace sviluppare introducendo quindi vecchi blues, rock di altri tempi, musica progressive, jazz, fusion o bizzarri brani di “musica leggera” come si soleva dire una volta. Ma non più di poche musiche per volta: l’attenzione cade, chi ascolta perde l’interesse che deve essere catturato in modo inaspettato da qualcosa di diverso. Ed ecco così la selezione di cover dal vivo quasi sconosciute e trovate rocambolescamente in rete per effetto di un momento di serendipità; alla infine la musica italiana d’autore per rilassare dopo un momento di ascolto che in alcuni casi può essere complesso.

Mancano i titoli di coda come nei film, ma il ricordo della musica riecheggia ancora nella testa e quando la musica finisce, quel silenzio accomuna per un istante le anime di chi ha ascoltato insieme.

Il Concerto

StageCSNSono agitato, impaziente e preoccupato. L’aereo è in ritardo ed è già il terzo giro che fa su New York in attesa del permesso di atterrare. Sto vivendo il viaggio con trepidazione perché oggi, per una combinazione del destino, assisterò ad un concerto speciale in Central Park; oggi suonano i miei miti di ragazzo: Crosby Stills & Nash.

 

L’aereo finalmente atterra a JFK, a poche miglia dal centro. Per fortuna niente intralci al controllo passaporti e mi scaravento come un ragazzino attraverso il terminal per prendere al volo un taxi. E’ tardo pomeriggio di un giorno lavorativo qualunque; il momento è speciale solo per me. Il traffico è intenso solo per chi esce dalla città, mentre scorre tranquillo verso il centro. Dico al taxista del mio appuntamento, lui viene dall’ovest, siamo coetanei e quasi ci accomuna questa antica passione.

 

CSN3L’auto vola, imbocchiamo il Queens Midtown Tunnel uscendo in un dedalo inestricabile di svincoli sulla trentasettesima, poi un tuffo a nord sull’ottava avenue mentre il cuore accelera i battiti, incrociamo la Broadway a Columbus Circle con il fiato sospeso e infine, a capofitto, lungo Central Park West.

 

Lungo il percosso si iniziano a sentire le note del concerto e la cosa mi ricorda la fine del film “La musica nel cuore”, stesso posto e stessa emozione; scendo al volo all’altezza della settantaduesima, pago l’autista e lo abbraccio col pensiero per avermi portato fin li in un attimo, accorgendomi solo ora della straordinaria coincidenza di essere sotto il Dakota building, un palazzo mito della città.

CSN4Solo un pensiero va a John Lennon e a Strawberry Fields che attraverso in un fiato. Alla fine, abbracciato ad un albero perché il fisico non regge più mi gusto le ultime canzoni “Deja Vu”, “Helplessly Hoping”: nelle pause durante gli applausi mi avvicino ulteriormente e finalmente li vedo sul palco intonare “Our House”.

 

CSN2Gli spettatori hanno tutti la mia età, cantano sommessamente insieme ai tre gustandosi l’attimo in comune, come se facessero parte del coro della band. Alcuni nonni hanno portato i nipoti piccoli, forse al loro primo concerto, non un evento scatenato, ma quasi una rievocazione più matura di Woodstock.

 

La musica è ormai al termine e con un brivido ascolto il pezzo finale “Teach Your Children”, spettacolare insegnamento di vita e al termine, col fiato sospeso tutti attendiamo in silenzio che l’ultima nota delle chitarre acustiche si dissolva in questa sera di fine luglio. L’urlo finale del pubblico è liberatorio, è la voce di una generazione che ha cantato e pianto insieme in America e io, per qualche istante, ho fatto parte di questo momento.

 

CSN1Ecco, questo è quello che pensavo mentre svolazzavo sopra il JFK mentre in Central Park quel concerto entrava nel vivo. E via assicuro, l’ho sentito tutto, compreso quel tac della puntina sul disco dopo il primo minuto che ormai fa parte del brano. Ho mancato il concerto per qualche ora, colpa delle congiunzioni astrali o di una beffa della compagnia aerea. Chissà.

Ma io ero li oh, se c’ero!