Il pane

PaneHo sempre avuto una predilezione per il pane. A volte, quando è veramente buono me lo gusto da solo anche a fine pasto come fosse un dolce. Da bambino ne mangiavo uno speciale che veniva fatto in campagna da alcuni parenti e che per me costituiva una delle delizie delle vacanze estive.

Naturalmente non si può competere con un forno a legna, ma ricreare alcuni profumi e gesti di un tempo sicuramente si. Il mio primo pane segue una ricetta semplice e tutto sommato veloce che nei prossimi esperimenti andrò a modificare provando varie combinazioni di farine e tecniche di lievitazione. In questo caso ho realizzato un pane bianco a singola lievitazione.

Mi chiudo in cucina per evitare sbalzi di temperatura e controllo di avere tutto l’occorrente: 4 etti di farina, una bustina di lievito di birra (che uso anche per la pizza), zucchero, sale, olio e un bicchiere d’acqua.

Metto a scaldare l’acqua in modo che diventi un po’ più che tiepida e vi verso la bustina di lievito insieme ad un cucchiaino raso di zucchero, mescolo per un po’ per sciogliere i grumi e lascio qualche momento tranquillo il lievito.

In una terrina intanto verso la farina, un cucchiaino colmo di sale e tre cucchiai di olio. Quando il lievito nel bicchiere ha prodotto un po’ di schiuma, lo verso nella terrina ed inizio a legare gli ingredienti usando la forchetta finché questi si amalgamano in un impasto che assorbe tutta la farina. All’occorrenza aggiungo un po’ di acqua per  prendere tutta la farina o altra farina se l’impasto risultasse troppo umido.

Al termine l’impasto risulta omogeneo e desideroso di riposarsi. Lo lascio in pace per 45 minuti dentro la terrina, coperta con più strati di salviette, giusto il tempo per godersi un CD o il capitolo di un libro.

Dopo il riposo l’impasto mostra i muscoli e appare più prorompente che mai, così premio il suo impegno disponendolo su un pezzo di carta da forno e quindi in forno. Seleziono i 200 gradi e mi dimentico delle sue proteste per 20 minuti, al termine dei quali vado a vedere le sue condizioni e con fare sadico introduco uno stuzzicadenti nella pagnotta per vedere quanta umidità sia ancora presente all’interno.

Indifferente alle proteste, decido di lasciarlo dorare ancora una decina di minuti finché spengo il forno, lo apro ed estraggo la pagnotta diventata scura dalla rabbia per un simile trattamento ma che nasconde dentro tanta morbida golosità.

Occorre aspettare qualche momento prima di tagliarlo a fette perché il coltello con la complicità del calore potrebbe alterare la consistenza soffice della mollica. Ma è solo un attimo che passa annusando l’aria e pregustando le delizie di un pane appena sfornato.

Pane

Il topo

Il topoSto ricevendo grandi soddisfazioni e messaggi di stima in merito al mio recente Studio sul Topo Marsicano nella cultura dominante abruzzese. Ad Avezzano verrà allestita una mostra stabile, successivamente itinerante, della quale il simpatico roditore sarà il protagonista e comparirà nelle sue ormai famose 512 espressioni di giubilo e derisione che tanto care sono alla popolazione locale.

Come è noto a tutti il Topo Marsicano possiede una facoltà particolare, maturata nel corso di lunghi anni di inseguimenti e fughe durante le quali, improvvisamente, si ferma e, rizzandosi sulle zampe posteriori, lancia uno sguardo beffardo all’inseguitore assumendo di volta in volta una delle tradizionali 512 posizioni.

L’inseguitore, stupito da un tale ardito comportamento del fuggitivo non riesce a far altro che fissarlo sgomento con un’espressione che generalmente vorrebbe dire: “ma sei scemo?”. La tecnica del Topo è però talmente evoluta che l’inseguitore non riesce ad approfittare dell’apparente vantaggio anzi, è proprio in quell’istante che le cose si mettono bene per l’inseguito che senza indugio si dilegua.

Il mio personale contributo epistemologico alla conoscenza e alla divulgazione di questo meraviglioso rapporto tra predatore e preda è consistito nella raccolta e classificazione delle immagini relative alle 512 espressioni del Topo. Abbiamo così in mostra alcune strepitose fotografie dello zampettante fuggitivo nell’atto del dileggio e altre immagini a carboncino realizzate impiegando le più avanzate tecniche di identikit mutuate direttamente da CSI.

In una sala separata saranno inoltre esposte le 50 immagini relative ad un singolo episodio ripreso con apparecchiature stroboscopiche nelle quali è ben visibile l’evento: la trasformazione dalla posizione di fuga al congelamento del corpo; in particolare, osservando attentamente il muso del roditore, è possibile leggervi chiaramente il labiale intuendo senza alcun dubbio la tipica frase: “Ngul a mammeta!”

 

La suora indiana

IndiaNonostante l’abitudine non saprei proprio come definire il modo di guidare in  India. Il primo sentore di diversità l’ho colto al mio arrivo, durante il tragitto dall’aeroporto alla missione che mi avrebbe ospitato. Era mezzanotte passata a Bangalore mentre percorrendo in taxi la strada che porta al centro della città ero immerso un turbinio di attività, rumori di auto, clacson e fumi che a poco a poco mi hanno destato dal torpore del viaggio e dell’ora tarda. Ho vissuto come un sogno quei primi momenti convulsi che però si sono ripresentati quotidianamente ogni volta che mi avventuravo per strada.

Ricordo con stupore e apprensione la suora di aspetto e modi gentili, una figura minuta e in sintonia con la propria micro macchina quando mi ha accompagnato in giro per la città. Vista la guida opposta alla quale siamo abituati, nei primi momenti mi sentivo a disagio occupando quello che pensavo fosse il posto di guida, senza trovare il volante e, sopratutto, il conforto del pedale del freno.

Lei, con gesto sicuro, sale alla destra dell’auto e al posto dei gesti cui siamo abituati, come allacciarci la cintura di sicurezza e controllare l’orientamento dello specchietto retrovisore, la gentile signora afferra un rosario e innesca una sequenza di parole che non intendo ma che immagino siano parte della liturgia del momento. Fatto ciò, ingrana la marcia e parte ad una velocità da Gran Premio uscendo dal cortile dove aveva parcheggiato, incurante dei numerosi passanti che in quel momento transitavano sul marciapiedi davanti a lei.

Questi, come per magia si dissolvono al suo arrivo, quasi allertati da un sesto senso che solo in quei luoghi mistici è presente. Io mi sveglio dalla sorpresa e mi ritrovo a dare dei pestoni col piede destro dove il mio istinto colloca il pedale del freno; poi, rendendomi conto del mio comportamento ridicolo, cerco di darmi un contegno mentre la mia autista affronta la stradina con una serenità e una luce negli occhi che in occidente sarebbe sospetta.

Dopo alcuni tentativi di omicidio, piume di polli starnazzanti e una mucca indolente un po’ seccata da quella frenesia, arriviamo sulla strada principale dove la nostra corsa finisce impantanata in un mucchio di ferraglia fumante e rumorosa che i locali chiamano traffico. Non si capisce bene il senso di marcia perché ciascuno ha la tendenza ad occupare tutti gli spazi vuoti compresa la corsia opposta, incurante dei mezzi che sopraggiungono. In questo ambiente sereno ed educato talvolta capita che qualcuno distolga la mano dal clacson, forse per riposare le dita o forse per indicare a gesti dove vorrebbe mandare il vicino di corsia.

In un ambiente, la strada, in cui ciascuno avanza senza regole apparenti, non c’è discriminazione, si offende e si viene offesi costantemente senza che ciò perturbi gli automobilisti. Le espressioni che vedo sulle facce dei passeggeri dei moto-risciò sono tutte rilassate ed indifferenti alla bolgia, segno della normalità di quel procedere.

Visto questo, penso che il rosario snocciolato dalla mia autista sia stato una sorta di richiesta di perdono preventiva per quello che avrebbe fatto con la sua guida folle e capisco pure gli altarini che i locali pongono sul cruscotto dei propri mezzi; le varie divinità orientali o santità occidentali  devono avere un bel da fare per salvaguardare la salute lungo quelle strade.