Il volo

VoloMi raccontava Lindbergh che il decollo ha sempre rappresentato per lui un motivo di ansia che svaniva solo quando il carrello, con un ultimo sussulto, lasciava la terra per non più ricadervi. Ecco, diceva: il tempo che intercorre tra quell’ultimo tonfo e il momento in cui capisci che non ve ne sarà un altro è il più lungo di cui un uomo possa avere esperienza. Tranne forse quello che segue quando la moglie ti dice: “Dobbiamo parlare”.

In natura esistono innumerevoli momenti di questo genere; non quello della moglie ma quelli dei primi voli, sia che si parta da grandi altezze, sia quelli, forse più faticosi, in cui devi vincere la gravità partendo da terra e conquistando ogni centimetro di cielo guadagnato con il sudore della fronte. O con quello che per gli uccelli rappresenta la fatica.

Oggi ho assistito ad atterraggi simili a quelli dei caccia sulle portaerei, giù il carrello e flaps in posizione, sia decolli scomposti nei quali ti ritrovi a fare il tifo per il povero pennuto che, come raccontava Lindbergh, saltellando sull’acqua, anelava a quell’ultimo balzo per vincere la gravità.

 

Fermata d’autobus

Fermata autobusCherie lo incontrò al termine del suo spettacolo, un tipo interessante, spavaldo, sicuramente rude ma con un sorriso che fa sparire ogni cosa nella stanza. Quando le si avvicinò, lei gli chiese: “Ehi, come ti chiami?” (non si capisce perché la domanda dovesse essere preceduta da “ehi” ma così fu e concediamo a lei, bella come il sole al tramonto, un momento di imbarazzo lessicale).

Lui, cotto come una pera dai modi sinuosi e provocanti di lei, rispose: “Bo”. Questo lasciò lei in evidente stato di perplessità, domandandosi per quale bizzarro caso della vita una persona non fosse a conoscenza del proprio nome; ci pensò su e quello che immaginò non le piacque. Allora scappò prendendo il primo autobus a caso, diretto chissà dove ma, nella speranza, lontano da quel personaggio alla ricerca di sé e della propria identità.

A nulla valse la corsa che fece perché lui, con due passi la raggiunse e salì a bordo proprio nell’istante in cui il mezzo partì. La storia poi narra di un sereno chiarimento tra i due ma ricorda, all’inizio, il dialogo tra Ulisse e Polifemo quando questi chiese a Ulisse: “Come ti chiami?” (all’epoca non si diceva “ehi”) che rispose: “Nessuno”.

Ecco: Cherie, per fortuna, non fu costretta a rispondere alla domanda dell’autista: “Chi ti sta inseguendo?” con un “Bo”.

 

Con le mani in pasta

Con le mani in pastaGiornata asciutta e ventilata, l’ideale per impastare. Soprattutto ho il tempo per farlo; non che impegni molto, ma quando si gioca con la pasta è meglio non avere distrazioni come telefoni suonanti o amici alla porta. Per impastare occorre la musica classica. Non chiedetemi perché ma l’esperienza mi dice che la pasta viene meglio con Mozart che con Zucchero.

Ho già tirato fuori dal frigorifero le 4 uova perché arrivino alla stessa temperatura della farina e preparo tutto l’armamentario per l’avvenimento: madia di legno, macchina per tirare la sfoglia, terrina per impastare, forchetta, bilancia, sale e…musica !

Quattro etti di farina per quattro uova (mi sembra il titolo di un vecchio film): verso la farina nella terrina e lascio un avvallamento nel centro per dare il benvenuto alle uova; le salo leggermente (mezzo cucchiaino) e con la forchetta inizio a sbattere le uova includendo a poco a poco la farina. In questa fase occorre affinare l’esperienza perché quando si pensa che l’impasto sia pronto per essere lavorato con le mani, si ha la sorpresa di impantanarsi senza speranza, alzando gli occhi alla disperata ricerca di qualcuno che ci liberi dal Blob appena creato.

Se la pazienza ci sorregge ancora per qualche momento, possiamo saggiare la consistenza dell’impasto usando una sola mano, in modo che se questo fosse troppo umido, con l’altra possiamo aggiungere farina in modo da riequilibrarlo. Alla fine, si può abbandonare la terrina per proseguire sulla madia opportunamente cosparsa di un velo di farina.

Ora inizia la fase in cui si coccola la pasta direttamente sulla madia, premendo con i polsi e, ottenuto un piccolo rotolo, lo si arrotola su se stesso cambiando il verso di lavorazione e ripetendo nuovamente l’operazione. Il calore delle mani aiuta gli ingredienti ad amalgamarsi e questo tocco umano, una macchina per impastare non lo darà mai. Si aggiunge farina poco per volta finché l’impasto tende ad attaccarsi alla madia o alle mani e al termine lo si lascia riposare sotto una stoffa di lino. Penso che questa cosa del riposo sia stata inventata apposta dai cuochi per fare una pausa dal lavoro, ma forse è solo una malignità.

Con un coltello taglio un pezzo di impasto che, dopo aver infarinato infilo tra i rulli della macchina, avendo selezionato l’ampiezza maggiore. Lo passo più volte e vedo che ora sta diventando un abbozzo di sfoglia; dopo un primo passaggio, infarino leggermente, la piego in due e ripeto l’operazione per due o tre volte. Ora diminuisco la distanza dei rulli e passo la sfoglia senza più ripiegarla, infarinandola quando occorre e facendo attenzione che scorra in modo lineare ottenendo una striscia di pasta più uniforme possibile.

Ripeto questa operazione fino al penultimo selettore di regolazione, poiché l’ultimo è destinato solo alle tagliatelle. Taglio le sfoglie della lunghezza desiderata e le passo attraverso lo strumento per il taglio della pasta. Quella che esce è una fragrante cascata di taglierini dalla consistenza ruvida al punto giusto e profumati di uovo, docili al tocco ma dotati di anima nobile.

Li dispongo sui vassoi già infarinati con gesti delicati come se si adagiassero dei neonati nel loro lettino, in modo che la pasta si asciughi in attesa della cottura. Ormai il lavoro è concluso e non rimane altro da fare che aspettare il momento in cui la pasta incontrerà il sugo. Ma questa è un’altra storia.