Lo so, a certe cose non si pensa ma poi succede che te le trovi davanti che ti chiamano per nome e devi ammettere che anche tu non sfuggi alle varie tappe della vita. Una di queste si è accorta di me un giorno a Istanbul quando ero serenamente indaffarato alla ricerca di un autobus che mi portasse fuori città. La cosa potrebbe sembrare elementare ma intorno al ponte Galata non si può mai dire e si fa presto a dire: “Chiedi a un autista”, ti metti a cercare qualcuno che corrisponda allo stereotipo dell’autista, aria scocciata e annoiata, atteggiamento distaccato di superiorità esistenziale e cronico odio verso la categoria dei “passeggeri” ma la ricerca risulta vana e ti accorgi alla fine che gli autobus vengono guidati da persone senza divisa, indistinguibili da qualunque altro soggetto locale. Continua a leggere Istanbul
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Il Concerto
Sono agitato, impaziente e preoccupato. L’aereo è in ritardo ed è già il terzo giro che fa su New York in attesa del permesso di atterrare. Sto vivendo il viaggio con trepidazione perché oggi, per una combinazione del destino, assisterò ad un concerto speciale in Central Park; oggi suonano i miei miti di ragazzo: Crosby Stills & Nash.
L’aereo finalmente atterra a JFK, a poche miglia dal centro. Per fortuna niente intralci al controllo passaporti e mi scaravento come un ragazzino attraverso il terminal per prendere al volo un taxi. E’ tardo pomeriggio di un giorno lavorativo qualunque; il momento è speciale solo per me. Il traffico è intenso solo per chi esce dalla città, mentre scorre tranquillo verso il centro. Dico al taxista del mio appuntamento, lui viene dall’ovest, siamo coetanei e quasi ci accomuna questa antica passione.
L’auto vola, imbocchiamo il Queens Midtown Tunnel uscendo in un dedalo inestricabile di svincoli sulla trentasettesima, poi un tuffo a nord sull’ottava avenue mentre il cuore accelera i battiti, incrociamo la Broadway a Columbus Circle con il fiato sospeso e infine, a capofitto, lungo Central Park West.
Lungo il percosso si iniziano a sentire le note del concerto e la cosa mi ricorda la fine del film “La musica nel cuore”, stesso posto e stessa emozione; scendo al volo all’altezza della settantaduesima, pago l’autista e lo abbraccio col pensiero per avermi portato fin li in un attimo, accorgendomi solo ora della straordinaria coincidenza di essere sotto il Dakota building, un palazzo mito della città.
Solo un pensiero va a John Lennon e a Strawberry Fields che attraverso in un fiato. Alla fine, abbracciato ad un albero perché il fisico non regge più mi gusto le ultime canzoni “Deja Vu”, “Helplessly Hoping”: nelle pause durante gli applausi mi avvicino ulteriormente e finalmente li vedo sul palco intonare “Our House”.
Gli spettatori hanno tutti la mia età, cantano sommessamente insieme ai tre gustandosi l’attimo in comune, come se facessero parte del coro della band. Alcuni nonni hanno portato i nipoti piccoli, forse al loro primo concerto, non un evento scatenato, ma quasi una rievocazione più matura di Woodstock.
La musica è ormai al termine e con un brivido ascolto il pezzo finale “Teach Your Children”, spettacolare insegnamento di vita e al termine, col fiato sospeso tutti attendiamo in silenzio che l’ultima nota delle chitarre acustiche si dissolva in questa sera di fine luglio. L’urlo finale del pubblico è liberatorio, è la voce di una generazione che ha cantato e pianto insieme in America e io, per qualche istante, ho fatto parte di questo momento.
Ecco, questo è quello che pensavo mentre svolazzavo sopra il JFK mentre in Central Park quel concerto entrava nel vivo. E via assicuro, l’ho sentito tutto, compreso quel tac della puntina sul disco dopo il primo minuto che ormai fa parte del brano. Ho mancato il concerto per qualche ora, colpa delle congiunzioni astrali o di una beffa della compagnia aerea. Chissà.
Ma io ero li oh, se c’ero!